La fine dei capricci è vicina, parola di neuroscienziata

La fine dei capricci è vicina, parola di neuroscienziata

#FreshFromTheLab: Kathrin Cohen Kadosh ci parla di adolescenti ansiosi, regolamento emotivo e qualcosa di meraviglioso che si chiama fMRI-based neurofeedback.

Cosa? fMRI? Neurofeedback? Teen-agers ansiosi? E questo cosa centra con noi che fuori o dentro la pancia abbiamo a che fare comunque con bambini piccolissimi? E come esattamente metterebbe fine ai loro capricci*?

Quando Kathrin Cohen Kadosh ha presentato la sua ricerca -che Silvia, membro onorario del  CBCD (Centro per lo Sviluppo del Cervello e delle Cognizione) di Londra ha avuto la fortuna di ascoltare- si è capito molto bene cosa c’entrano i “capricci” dei nostri bambini con tutto il resto e quanto fondamentale e importante saperlo sia per noi genitori.

Ma procediamo per gradi e iniziamo da qualcosa che conosciamo bene: l’emozione.

Regolamento emotivo

Noi regoliamo le nostre emozioni quando siamo in grado di evitare che si impennino o crollino facendoci avere dei comportamenti svantaggiosi per noi. Se sei incinta, potresti aver notato che questa cosa sta diventando sempre più difficile: potrebbe capitarti di piangere inconsolabilmente (e questo sarebbe il comportamento non necessariamente desiderato) solo per una pubblicità dalla musica nostalgica (e la nostalgia sarebbe l’emozione che prende il sopravvento senza il tuo permesso).

Se hai bambini, ti sarai probabilmente accorta che per loro è ancora più difficile evitare che le emozioni prendano il sopravvento e il controllo sui loro comportamenti. Generalmente siamo abbastanza pazienti con questa cosa con i neonati per un paio d’anni, ma appena compiono 2 anni ci aspettiamo che sappiano controllare la loro reazione e smettere di urlare (comportamento) solo perché abbiamo dato lore la cocente delusione (emozione) di un bicchiere verde anziché giallo.

Il regolamento emotivo, invece, è qualcosa che non gestiamo affatto prima di essere adulti (e anche allora…!). E inoltre, difficoltà con il regolamento emotivo sono buoni predittori dell’ansia (articolo qui).

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Quindi, supportare i nostri figli mentre imparano a regolare le loro emozioni non è solo questione di risparmiarsi questa o quella situazione di capriccio imbarazzante in mezzo alla strada o al supermercato. Il regolamento emotivo ha un impatto sulla salute mentale dei nostri bambini (e anche sulla nostra)!

Kathrin Cohen Kadosh e la sua squadra stanno facendo un lavoro pazzesco alla ricerca di modi per supportare i bambini e i giovani adulti a migliorare il proprio regolamento emotivo. E qui è dove entra in gioco l’fMRI.

fMRI

La Risonanza Magnetica Funzionale (Functional Magnetic Resonance Imaging) ci permette di mappare e misurare quello che il cervello sta facendo senza…beh, senza aprire il cranio. E come fa?

Lo scanner MRI a un potentissimo elettromagnete (tipicamente 3 Tesla – 50mila volte più grande del campo magnetico della terra). Questo forte campo magnetico, fa allineare gli atomi che formano i nostri cervelli (e tutto il resto del corpo), che significa che quel loro minuscolo segnale magnetico si somma e noi possiamo misurarli.

Per misurare l’attività del cervello, possiamo usare una tecnica chiamata immagine BOLD Blood Oxygenation Level Dependent. Cioè: quando i neuroni sono più attivi, hanno bisogno di più ossigeno, che è trasportato dal sangue. Questo significa che se c’è più attività in un’area del cervello, ci sarà più sangue che fluisce lì. Le proprietà magnetiche del sangue sono diverse a seconda che stia trasportando ossigeno o no: quindi possiamo individuare quanto una specifica area del cervello sia al lavoro mentre chi è nello scanner fa (o anche solo pensa!!!) qualcosa.

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In base a loro ricerche precedenti, Kathrin e il suo team erano particolarmente interessati all’attività neurale nell’amigdala e nella corteccia pre-frontale dorso-laterale. Sapevano che una modalità “matura” di regolare le emozioni si riflette in una relativamente minore attività dell’amigdala e una relativamente maggiore attività della corteccia pre-frontale dorso-laterale.

Sarebbe stupendo se solo potessimo aiutare i bambini ansiosi a mostrare quel particolare pattern di attività più spesso! Vorrebbe dire aiutarli ad allenare un modo molto sano di usare il loro cervello, che potrebbe proteggerli proprio dalla loro ansia…

E questo è esattamente quello che Kathrin e la sua squadra hanno progettato di fare. Si sono imbarcati in questa missione, con il supporto di un’arma tecnologica speciale: il fmri-based Neurofeedback!

Neurofeedback

Per quanto pazzo possa sembrare, è possibile fare in modo che i partecipanti guardino e vedano la propria attività neurale grazie al fMRI-based Neurofeedback.

Come potete immaginare, è un’operazione piuttosto costosa, ma per fortuna ci sono organizzazioni fantastiche, come il BrainTrain consortium, che mirano proprio a finanziare studi come questi**.

Kathrin e la sua squadra hanno coinvolto i partecipanti mostrando un termometro che si alzava in risposta ai pattern di attivazione del cervello più maturi (quindi con più attività nella corteccia prefrontale dorsolaterale e meno nell’amigdala) e si abbassava in presenza di pattern meno maturi.

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Solo guardando queste schematizzazioni della propria attività neurale, i partecipanti possono fare “qualcosa per cambiarla. Non sanno spiegare esattamente come fanno, ma possono davvero far muovere il termometro su e giù.

Se un adolescente inquieto riesce a far salire il proprio termometro, significa che sta praticando un pattern di attività neurale che corrisponde a un regolamento emotivo più efficace.

E all’improvviso diventa evidente come tutto questo riguardi chiunque cerchi di migliorare il proprio regolamento emotivo. Quanto sarebbe bello e utile se questa ricerca potesse essere usata per contribuire a uno strumento  di intervento che le persone potessero usare per migliorare il proprio regolamento emotivo? I bambini di 7 anni ad esempio adorano il “neurofeedback”. Quanto sarebbe bello se potessimo migliorare i pattern connettivi mentre il cervello si sta sviluppando? E magari prevenire certi pattern controproducenti (come certe ansie) prima che diventino parte integrante delle abitudini?

In conclusione, dobbiamo confessare che il titolo di questo post forse è stato un po’ eccessivo e onestamente sospettiamo che i bambini continueranno ad avere i loro crolli emotivi (che sono probabilmente anche piuttosto utili!). Ma è meraviglioso che la scienza stia lavorando per rendere disponibili strumenti concreti per migliorare la salute mentale e il benessere dei bambini.

Per noi mamme, il messaggio è chiaro e tutto sommato di speranza: controllare i comportamenti in risposta alle forti emozioni non è una cosa che si impara in fretta. Il nostro esempio, la nostra connessione emotiva e la nostra comunicazione rispettosa sono gli strumenti a nostra disposizione, ma non è poco. Usiamoli con cura, pazienza e con passione!

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Getty Image

Post apparso originariamente su Baby-Brains.com e pubblicato dopo la revisione di Dr. Kathrin Cohen Kadosh.

*Ok, usiamo questa parola perché è utile al senso di questo post e la più inflazionata  del vocabolario italiano su questo tema. Ma vi diciamo anche che la detestiamo proprio!

**This research is funded by European Commission FP7 Braintrain grant (602186).

La soluzione definitiva al problema delle coliche

La soluzione definitiva al problema delle coliche

COLICHE.

Il bambino piange.

Piega le gambe, inarca la schiena, si dispera. Emette un po’ di gas dalla pancia.

Quindi ha le coliche.

Ovvio, no? NO!

Dopo averci convinte che il parto per noi donne debba essere necessariamente un calvario e che l’unica via di uscita sensata sia l’intervento pietoso dell’anestesista, la nostra cultura ci ha convinte che è normale che i neonati piangano disperatamente e che spesso l’unica possibile salvezza siano goccine, sondine o altre diavolerie.

Adesso però fermiamoci un attimo e riflettiamo. Cercando risposte logiche, ci eravamo già dette che l’ipotesi che Madre Natura, Dio o l’Ammasso Casuale di Atomi avesse toppato i meccanismi di parto solo del mammifero umano ci sembrava assai infondata.

Ugualmente, a noi sembra quanto mai discutibile l’ipotesi che sia solo il cucciolo umano quello facilmente incline a pianto e disperazione nei primi mesi di vita.

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I bambini piangono, spesso molto, è vero. Ma -come ci siamo già dette parlando di cesarei di emergenza– non sempre quello che è necessario è anche inevitabile.

Noi siamo fermamente convinte che quello delle coliche sia un circolo vizioso e soprattutto culturale. Un circolo vizioso e perverso che inizia spesso con le prime lineette del test di gravidanza per continuare poi con quella disconnessione costante da noi stesse e dai nostri bambini che puntella narrativa e pratiche intorno a parto e maternità. Siamo forse impazzite? In effetti, sostenere che il pianto disperato di un neonato possa essere iniziato con il test di gravidanza suona un po’ azzardato. Ma tant’è.

Gli esseri umani vengono al mondo con una serie di bisogni precisa.

Purtroppo da qualche parte -sotto la difesa collettiva nei confronti delle ansie della vita forse; o dietro le pubblicità dei prodotti per l’infanzia- quei bisogni si sono ritrovati compattati e sistematizzati, soprattutto ridotti.

Più o meno esplicitamente si crede -o si fa finta di credere- che davvero un neonato possa avere solo bisogno di mangiare, essere cambiato, fare aria di sopra e di sotto. Forse dormire (anche se quello per stanchezza continua a essere uno dei pianti più comunemente tradotto in coliche).

Che il neonato abbia un bisogno totale e assoluto di comunicazione, è un dettaglio che si è perso. Si è perso nel modo in cui erano (e sono tuttora!) maneggiati i bambini alla nascita. Si è perso nella separazione della mamma e poi nel ricongiungerli all’ombra dei protocolli e degli inglesismi.

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Resta l’istinto materno a salvarci. Ma che fatica riattivarlo, riscoprirlo, riascoltarlo, soprattutto dopo esserci lasciate travolgere da parto e gravidanza come processi a noi estranei da subire e da cui farci salvare. Soprattutto dietro il brusio delle zie e delle vicine di casa e le musichine delle pubblicità del latte anti-colica.

L’idea che siano coliche la ragione di quel gran piangere e quindi tutto sommato cose estranee al nostro controllo, può essere d’altronde abbastanza rassicurante.

È un po’ come le infinite ragioni per cui un bambino si è incastrato nel canale del parto: qualcosa di estraneo, esterno e incontrollabile (un bambino troppo grande o un cordone intorno al collo, per nominare solo due esempi dei miti folkloristici più radicati) pone un ostacolo…il focus della responsabilità può serenamente spostarsi a quello del fato e per fortuna ci sono strumenti esterni (forcipi o sondini in questo si equivalgono) e esperti che li sanno maneggiare per sbloccare la situazione.

I bisogni degli esseri umani, dicevamo. Il pianto è una forma di comunicazione.

Quella più efficace nel trasmettere il senso del bisogno. In teoria. C’è qualcosa di più complesso però nel nostro essere animali umani: quella comunicazione non verbale e istintiva che agli altri mammiferi viene spontanea con noi trova sempre il solito ostacolo. Quella neo-corteccia, la stessa  parte del cervello razionale (che guarda caso gli altri mammiferi non hanno) che si mette in mezzo così spesso e volentieri al parto.

Se tutta la gravidanza e il parto sono all’insegna di un approccio razionale, controllato e spesso impaurito a quanto accade, è facile pensare che lo stesso approccio possa a volte -non sempre, l’istinto a volte si impone- colorare la relazione ai nostri bambini (che è poi quello a cui umilmente cerchiamo di offrire un’alternativa con il nostro libro).

Non è un caso che la stragrande maggioranza delle mamme che hanno partorito con un parto dolce e rispettato, senza interferenze e possibilmente senza elementi chimici a sbarellare gli ormoni di tutti, ti dicano: “È un bambino tranquillissimo!”.

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Image by Joren Aranas

Uno degli articoli più condivisi della rivista dei pediatri UPPA è quello intitolato “Le coliche del neonato non esistono“. Ogni volta che qualcuno lo posta da qualche parte piovono commenti di mamme seriamente convinte che quelle del loro bambino fossero coliche e gli autori di UPPA dei grandi buontemponi se non peggio.

Certo, può ben capitare che un bambino abbia mal di pancia, o mal di orecchie o anche una spalla lussata da un parto assistito male (storia di prima mano).

Il pianto da dolore fisico non è impossibile. Ma quando nostro figlio ha le coliche, come magari ci dicono le zie avevamo noi da piccole (probabilmente negli anni 80 dopo parti a cui è meglio non ripensare); quando ha le coliche come tutti i figli delle nostre amiche -fuori e dentro i gruppi Facebook- che ci consigliano goccine magiche…

Ecco, in quel caso, fermarsi a chiedersi se quel bambino non stia gridando qualcos’altro…può essere una buona idea. Per lui, che una prima infanzia dolce e serena potrebbe apprezzarla; ma anche per noi, che nella relazione con lui e nel saperlo capire troveremo una magia che non sapevamo di avere. E che nessuna goccina del farmacista può uguagliare.

Che tu sia già mamma, magari alle prese con un bambino “con coliche”, o che il tuo bambino sia ancora dentro la pancia e si prepari per nascere, il messaggio è lo stesso: solo nella comunicazione, vera, aperta e connessa, con te stessa e il tuo piccolino c’è la chiave che spegne il suo pianto (e, francamente, anche il tuo).

Ogni volta che pensiamo al pianto dei bambini -appena nati, ma anche nei giorni a seguire- ci torna in mente il video della nascita di questo piccolo rinoceronte. Possibile che i primi istanti di vita di un rinoceronte accarezzato da un corno -UN CORNO!!!- abbiano davvero diritto a così tanta più dolcezza di quelli di tanti piccoli umani? E ci scommettiamo quello che volete: a questo rinoceronte, le coliche non verranno…

Prevenire le coliche si può: ogni giorno di gravidanza, al momento del parto e ogni ora a seguire. Perché quella che la cultura occidentale post anni ’50 chiama colica, il bambino chiama “guardami, parlami, toccami”. E se può farlo un corno di esorcizzare le “coliche”, possiamo farlo anche noi. Abbiamo tutte un piccolo corno da qualche parte ma dobbiamo metterci molto vicine al nostro bambino per trovarlo.

Concediamocelo. Concediamolo ai nuovi piccoli umani. È urgente. E possibile.

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10 cose che devi sapere sui 10 centimetri di dilatazione

10 cose che devi sapere sui 10 centimetri di dilatazione

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© Kiddicare

Certezze, quando siamo in attesa -e nella vita in generale- ne abbiamo poche: ma che al parto dobbiamo dilatarci 10 centimetri fa parte di quelle poche.

Purtroppo, come buona parte delle certezze che ci portiamo addosso per folklore sociale riguardo al parto, è una certezza un po’ ambigua e che da sola serve a poco (quando non fa danni).

Infatti, è una di quelle certezze che invece, subdolamente, fanno vacillare nella pratica e spesso si rivelano armi a doppio taglio. Quelle certezze che fanno parte della posizione di delega e anche molto amiche di tigri dai denti a sciabola di vario tipo.

Come si fa a sapere a quanti centimetri siamo? Con una “bella” Esaminazione Vaginale (d’ora in poi EV): due dita inserite in vagina a misurare di quanto ci siamo dilatate. Un numero per la nostra corteccia da processare. Spesso e volentieri sotto una nebbia piuttosto spessa che ricopre cosa si debba dilatare e soprattutto come questo accada davvero.

A noi, quella nebbia folkloristica non piace. Oggi vi diciamo una decina di cose che è importante sapere su quei 10 centimetri di dilatazione e sulle EV che si portano dietro.

1) Cosa si dilata?

La cervice: insomma, il buco sotto l’utero da cui deve uscire il tuo bambino. Un buco un po’ complesso, ma pur sempre un buco, che deve aprirsi.

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2) Come lo fa?

Non si apre con un’apertura di sforzo attivo come, ad esempio, quella per aprire una finestra. Al contrario: si apre perchè molla la presa.

Il lavoro per aprire non lo fa la cervice, lo fanno i muscoli dell’utero. Quelle che noi chiamiamo onde (e altri, senza rendersi conto di usare un termine controproducente, contrazioni) altro non sono che un potente lavoro muscolare.

I muscoli dell’utero lavorano e quelli della cervice (che in gravidanza erano al lavoro tenendola ben chiusa mentre quelli dell’utero erano rilassati) invece si rilassano, così che la dilatazione possa avvenire.

Non è un’informazione da poco: per dilatarsi la cervice ha bisogno di rilasciare, essere morbida e rilassarsi.

2) Il conteggio dei centimetri si fa con le dita, non con un metro.

Ovvio, no?

Eppure pensiamo che chiunque ci visiti possa dirci con esattezza a quanti centimetri siamo!

Invece, l’accuratezza della misurazione tra diversi operatori è inferiore al 50% (Buchman et al, 2007). E a quei centimetri, noi e spesso anche chi ci assiste, ci attacchiamo quasi ossessivamente. Forse perché (un po’ come la data del termine) segnano un barlume di certezza in quel momento così incredibile che stiamo vivendo?

Ce li dicono e ce li facciamo dire come se fossero i veri depositari dell’andamento del nostro parto: rassicuranti come le coordinate su una mappa. Di una città invisibile però.

3) Una EV non è una sfera di cristallo (cit.).

Qualora anchcrystal-ball-onee si potesse misurare con accuratezza (e non sempre si può), la dilatazione a cui sei in un determinato momento nulla può dirti di come ci sei arrivata né, tanto meno, di come procederai. Il progredire della dilatazione non è prevedibile (dimostrato, studio del 2015).

4) Le EV sono sintomo di una cultura del parto che ha sostituito la donna con numeri e diagrammi.

L’idea che un travaglio debba necessariamente progredire di un cm all’ora fa parte di quelle pratiche che hanno tentato di standardizzare processi complessi e sono rimaste impigliate in una visione solo meccanicistica del travaglio (mentalità di chi lo assiste e, di conseguenza di chi lo vive).

Quelle pratiche che, guarda caso, fanno parte di un approccio ipermedicalizzato al parto in cui “la donna è scomparsa, lasciando il posto a diagrammi che misuravano le parti del suo corpo” (Dr. Rachel Reed).

Certo la cervice fa parte del parto, ci mancherebbe. Ma la lente con cui spesso la si osserva (spesso e volentieri a scapito di altri aspetti della donna, inclusi quelli non meno importanti delle sue emozioni) è quanto meno sproporzionata.

5) Le brave ostetriche hanno un sacco di altri modi per sapere a che punto sei. 

“Se non ti misuro come faccio a dirti quando spingere?” implica due cose, gravissime: che una donna vada misurata, prima che osservata e ascoltata (come il tracciato delle contrazioni, per intenderci) e che il sapere risieda sempre fuori di lei.

Del fatto che la necessità di dire quando spingere sia un altro grosso problema per tutti i coinvolti abbiamo già parlato qui.

Stiamo dicendo che nessuno vi deve monitorare? Certamente no. Al contrario.

Ma una breve conversazione con qualsiasi ostetrica esperta vi confermerà che parte del loro lavoro è proprio leggere le fasi del travaglio a partire dal comportamento della donna. Una visita ogni tanto può essere necessaria, certo, ma le ripetute EV di routine non sono certamente l’unico modo per capire l’andamento di un travaglio. Più spesso, sono il modo migliore per compilare moduli e rispettare procedure di routine meccaniche.

6) Quello che si dilata, si può anche richiudere.

Non è un processo a senso unico. Ina May Gaskin suggerisce che la cervice sia uno sfintere (opinione su cui i professionisti dibattono): a noi che si possa o meno definire “sfintere” interessa poco.

Quello che ci interessa è che come uno sfintere una volta aperta e rilassata può anche richiudersi. E guarda caso quello che la fa richiudere è il sentirsi a disagio, l’essere osservati o interrotti.

Il rilascio di adrenalina e, in generale, tutte le tigri dai denti a sciabola di svariate dimensioni che mentre cerchiamo di misurare i centimetri lasciamo scorrazzare indisturbate.

Paradossalmente, proprio una EV fatta nel modo e nel momento sbagliato può essere la causa della diminuzione della dilatazione. Per non parlare di tutte le altre interferenze considerate normali. Casualmente, un cambio di personale e di ambiente è quasi sempre seguito da qualcosa di questo tipo: “Mi hanno detto che sono già a 7.” “No, sei solo a 4.” Che coincidenza eh?

7) Contare i centimetri attiva la corteccia

Per processare l’informazione “numero centimetri” abbiamo bisogno di usare la corteccia. Quella stessa parte del cervello che sta cercando in tutti i modi di mettersi in silenzio per lasciar lavorare il sistema limbico, quello che ha davvero il comando e il controllo sull’utero come su tutte le funzioni che ci tengono in vita.

Una donna è liberissima di farsi contare e dire i centimetri, se lo desidera; ma è importante sapere che per il cervello che comanda il parto quell’informazione non solo è irrilevante, ma anche facilmente controproducente.

8) Le EV di routine sono supportate da abitudine culturale, non da evidenza scientifica.

Uno studio del 2013 del NICE conclude che: “Non si è trovata alcuna evidenza per supportare l’uso di EV di routine in travaglio per migliorare i risultati per mamme e bambini. (…) È sorprendente che ci sia un cosí diffuso utilizzo di questo intervento senza buone evidenze della sua efficacia, considerando in particolare quanto le donne che ricevono questa procedura siano sensibili al suo utilizzo e le potenziali conseguenze avverse in alcuni casi.”

9) Le EV non sono obbligatorie e si possono rifiutare. 

Vi stiamo dicendo di rifiutare sempre e comunque qualsiasi EV e combattere furiosamente con tutti in sala parto? Certamente no.

Ma il diritto di dire “adesso basta”, lo avete. Persino le procedure più strette degli ospedali più vecchio stile che prevedono EV ogni ora hanno l’obbligo di offrirle, non di farle per forza.

Si torna sempre al punto fondamentale: con gravidanza fisiologica e parto normale, non siete pazienti, siete mamme che mettono alla luce il loro bambino.

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10) 10 cm sembra quasi un punteggio.  10 cm è una convenzione. 10 cm è un numero.

Uno, tra tanti tantissimi numeri più grandi, più belli e più importanti. Tu sei un corpo, una mente, un essere umano complesso e meraviglioso. Una mamma. Che deve farsi assistere con rispetto e competenza e far nascere il suo bambino con dolcezza e con potenza.

Stai per incontrare il tuo bambino, sicura di voler sentire parlare di centimetri e di ore?

DISCLAIMER: Questo post non dice che le EV siano inutili sempre e dannose per tutte. Le EV sono certamente un utile strumento in alcune circostanze che un’assistenza medica qualificata saprà individuare. IPP non sostituisce in alcun modo un parere medico/ostetrico. Quando parliamo di parto parliamo SEMPRE di parto fisiologico assistito da personale ostetrico qualificato.
Induzione positiva.

Induzione positiva.

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Hai bisogno solo di fede, fiducia, e un pizzico di polvere di fata!

Visto che e’ tempo di feste, e che la frase “Signora facciamo induzione il 22 cosi’ a Natale siamo tutti tranquilli” qualcuno l’ha sentita davvero (e purtroppo non e’ una licenza poetica del blog), torniamo a parlare di induzione, ma  questa volta parliamo di induzione positiva.

Quell’induzione che serve a qualcosa di piu’ grande dello stare più tranquilli a Natale e di cui alcune donne ( circa il 10/15% stando alle stime dell’OMS) possono davvero avere bisogno. Quell’induzione che, proprio quando e perché davvero necessaria, può e deve essere parte di un parto positivo.

Come reagire al meglio a un’induzione? Cosa possiamo fare NOI, la mamma e il papa’ di questo bambino, per affrontare un’induzione in maniera il piu’ possibile positiva? E gia’ che ci siamo cercare di evitare la cascata di interventi che cosi’ spesso devia un’induzione verso un cesareo? In sintesi, due cose.

1) Capire e sapere perche’ e’ veramente necessaria.

Perché un’induzione sia parte di un parto positivo e’ essenziale che noi capiamo, sappiamo, e crediamo anche, che sia davvero il meglio per noi.

Se affrontiamo un’induzione con la rassegnazione di chi ha perso una battaglia “perché nel mio ospedale non mi lasciano andare oltre la 41″, la possibilità che il nostro corpo reagisca bene e la assecondi e’ piuttosto bassa.

Se invece le ragioni per farla sono solide, e noi le abbiamo capite davvero e sappiamo che e’ davvero il meglio per noi e se abbiamo escluso che ci sia offerta con leggerezza come pratica di routine, medicina difensiva o, peggio, per comodita’, allora possiamo accoglierla come quello che davvero deve essere: un contributo incredibile che la scienza medica sa offrire. Il primo e piu’ importante passo e’ stato fatto.

E possiamo concentrarci a farla essere l’interruttore iniziale di un processo accolto non con rassegnazione ma con grinta e gratitudine, nel quale scegliamo di continuare a guidare noi.

2) Supportare l’induzione, non solo sopportarla.

Che avvenga con gel, fettuccia o iniezione poco cambia: il nostro corpo sta ricevendo dall’esterno l’ordine di lavorare.

E’ il caso che il sistema interno sia d’accordo. Troppo spesso si leggono racconti di travagli infiniti e atroci in cui a un’induzione sono seguite contrazioni dolorosissime e ingestibili. E’ normale.

Se l’ossitocina che arriva dall’esterno incontra un sistema interno di adrenalina e tensione (proprio in risposta all’induzione magari!) non può che esserci un cortocircuito: un lavoro muscolare -perché ve lo ricordate cosa sono le contrazioni, vero??-  che diventa meccanico ma non incontra le condizioni interne ottimali per avvenire in maniera efficace. Una tortura medievale.

Chiudersi in una bolla di positivita’ e rilassamento diventa cruciale. L’induzione avvia il processo: ma poi il lavoro dobbiamo farlo noi. E da noi -dai nostri pensieri, dal nostro respiro- dipende la nostra ossitocina interna: un circolo di positivita’ in cui chimica ed emotivita’ sono strettamente interconnesse. Un lavoro fisico e mentale di connessione, respirazione e positivita’. Come molte altre cose, non e’ facile, ma e’ semplice.

Poter indurre un parto, come a una mamma con cui abbiamo lavorato di recente, per essere sicuri che il bambino nasca accanto a chi dovrà operarlo al cuore poche ore dopo e’ qualcosa di incredibile. Limitare i rischi dell’inatteso per poter intervenire su un cuore cosi’ piccolo. E’ il rendere possibile l’impossibile che fa della medicina qualcosa di magico e epico. Meraviglioso. Duro e difficilissimo, ma innegabilmente magico.

Qualsiasi sia la ragione per l’induzione -e qui certo non si discute nulla di medico- se induzione deve essere significa che il bambino e la sua mamma possono fare insieme quel pezzo di strada che e’ la nascita. Significa che quel corpo può aprirsi, anche se con un aiuto esterno. Significa che quel bambino deve scivolare fuori e la sua mamma puo’ rilasciarlo.

Che l’attenzione resti puntata su quella magia. Sull’intervento come polvere di fata che permette di prendere il volo.

Induzione non significa che in pochi minuti il travaglio sara’ partito e il bambino sara’ nato.

A chi ci sta intorno il compito di controllare, ma a noi quello di uscire dal rigore delle ore e dei centimetri: lasciar passare le prime ore con la stessa fluidità con cui si deve affrontare qualsiasi travaglio.

Portarsi un ipad o un computer con una serie divertente, che distragga e faccia ridere. Evitiamo il tranello del “e adesso?”, “oddio un’altra contrazione”.

La nostra corteccia deve spegnersi comunque. Noi e il nostro bambino dobbiamo comunque trovarci in quella bolla la’ giù dentro di noi, tra il sonno a la veglia. E questo, questo dipende da noi, non dall’induzione.

A chi ci assiste lasciamo gestire la parte tecnica. E diamogli fiducia.

Sara’ anche stata indotta, ma e’ un dettaglio irrilevante: e’ la sua nascita. Noi, che siamo i suoi genitori, occupiamoci della parte magica.

Voi lo sapete che qui non si fa consulenza medica, eh. Tutto quello che scriviamo e’ teso solo a offrirvi spunti di riflessione per affrontare il parto con fiducia e dolcezza. Nessun materiale Il Parto Positivo è sostitutivo della consulenza e presenza, durante il parto o parte della gravidanza, di un’ostetrica o di un medico ginecologo. Non rappresenta di fatto un’alternativa alle cure mediche o alla consulenza medica in qualsiasi modo o forma.

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CERVELLI IN SALA PARTO (E ALTROVE) , Pt.2: LA NEOCORTECCIA

CERVELLI IN SALA PARTO (E ALTROVE) , Pt.2: LA NEOCORTECCIA

Molto utile sul posto di lavoro, il giorno del parto la parte logica del nostro cervello è un po’ una palla al piede. Come per tutte le palle al piede, il segreto sta nel riuscire a farla muovere senza farsi male. Per fare questo, dobbiamo imparare a conoscerla almeno un po’.

La neocorteccia è lo strato più esterno del cervello, quello che si occupa di cose complicate come l’attenzione, la pianificazione, il linguaggio e la coscienza. È grazie a questa parte che abbiamo prodotto la Divina Commedia, abbiamo elaborato la legge della relatività e costruito il Burj Califa. Più prosaicamente, è questa la parte con cui calcoliamo le rate del mutuo.

Alla neocorteccia piace controllare e capire. Non crede nei miracoli ed è molto diffidente di tutto ciò che a un miracolo assomiglia. La neocorteccia è terrorizzata dal parto, e anche una cosa profonda e radicale come diventare madre non la fa sentire molto bene.


E poi è nervosa. È quella che vi fa iniziare tutte le frasi con “Oddio”. “Oddio ma saranno queste le contrazioni vere?” “Oddio ma c’è tutto nella valigia dell’ospedale?” “Oddio che male!” “Oddio che voce brutta che ho quando urlo.” “Oddio ma cosa penserà mio marito di me?” E così via. Riuscire a far tacere lei è probabilmente la cosa più faticosa del parto. Una volta fatto quello, il resto viene da sé  (non stiamo esagerando. Lo dice pure lui).

Ma come si zittisce una neocorteccia?

La primissima cosa da fare, come sempre quando si tratta di tipe preparate e un tantino pedanti, è ascoltarla e risponderle così si placa: durante la gravidanza – e anche prima – abbiamo tutto il tempo per prepararci. Sarà lei a porci le domande fondamentali sul nostro ruolo di genitori. “Che impatto ha la nascita sulla vita del bambino e della madre?” “Qual’è il modo piu sicuro di partorire?” “Come posso dare il miglior inizio possibile alla vita di mio figlio?” “Di cos’ha bisogno un embrione/feto/neonato?”. Prendendoci prima il tempo di porcele e poi la cura di rispondere a queste domande in modo vero e personale, non solo ci prepariamo ad essere genitori consapevoli (che già non è male), ma mettiamo la neocorteccia a suo agio e le permettiamo di mollare la presa e lasciar lavorare l’altra parte di cervello, quella che gestisce il nostro travaglio (si chiama sistema limbico e ne parleremo) il giorno del parto e che inizia a prepararsi per farlo durante i nove mesi precedenti.

Ma non è tutto. Come per tutto nella vita, non basta sapere per vivere il parto in modo positivo (sarebbe quasi come aspettarsi di diventare Rocco Siffredi leggendo un manuale di anatomia del sistema genitale femminile). Bisogna anche saper fare. Saper partorire è saper spegnere la corteccia: rilassarsi senza dormire, essere in controllo senza essere tese. Qualcosa che culturalmente abbiamo disimparato. E la nostra corteccia è troppo sviluppata per lasciarsi spegnere facilmente. Ci sono delle tecniche antiche come il mondo (ad esempio imparare a respirare nel modo giusto) ed altre più recenti (ad esempio ascoltare CDs con guide al rilassamento), e corsi preparto completi dai nomi un po’ hippy che le fondono e le approfondiscono, che ci servono proprio a questo.

Ecco che i nove mesi di gravidanza si trasformano da lunga e passiva attesa, dolce ma (diciamocelo) pure un po’ snervante, in qualcosa che ci fa riappropriare di parti di noi che non sapevamo neanche di avere; e il parto da qualcosa che dobbiamo subire e in qualche modo superare in qualcosa che possiamo (imparare a) fare noi.