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Epidurale: è davvero emancipazione dal dolore?

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L’idea che il dolore del parto sia un castigo divino ha seminato nelle donne una gran voglia di opporvisi e in che le assisteva atteggiamenti variabili tra il “ben ti sta” e il “ti salvo io”. La strumentalizzazione di questa idea per opprimere le donne è una delle cose più disgustose avvenute in duemila anni di civilizzazione in Europa.

La tentazione di fare l’equazione fra il “NO!” all’oppressione e il “NO!” al dolore è davvero forte e ampiamente persistente anche oggi. Eppure, è difficile sostenere che siano stati i bigotti dei secoli passati a creare quel dolore: l’hanno preso sottogamba, non lo hanno rispettato, ne hanno forse addirittura gioito e per questo Dante, se scrivesse oggi, li metterebbe certo tutti a partorire con dolore all’inferno per il resto dei loro giorni. Ma il potere di creare quel dolore, non sono certo loro ad averlo avuto.

Al netto di premi e punizioni divine, rimane il fatto che l’evoluzione sembra aver selezionato il parto doloroso come meccanismo più efficace per la riproduzione umana. Eppure non tutti i dolori sono uguali. È stato individuato un fattore determinante nell’esperienza del dolore di una donna in travaglio: è il senso che lei le dà(1). Il significato che una donna assegna a un dolore può influenzare la sua risposta fisica a quel dolore. |l significato del dolore prende forma non nella testa di una persona isolata, ma grazie al contesto sociale e alle caratteristiche della comunità all’interno della quale il dolore si manifesta. Il significato che in una società si ascrive al dolore del parto non impatta solo la percezione effettiva che le donne hanno del dolore, ma anche la loro sensazione di aver bisogno di supporto esterno per gestirlo o di essere in grado di farlo con le proprie forze.

All’interno di un contesto in cui l’esperienza del dolore è vissuta e interpretata da tutti come qualcosa di sensato e produttivo, le donne rispondono con la convinzione di avere dentro di sé le risorse per gestirlo, cercano meno supporti esterni e nominano la loro forza interiore come una risorsa (2). Questo significa che il modo in cui le persone (familiari, amici ma anche media e soprattutto professionisti) intorno a noi interpretano i dolori del parto non è una cosa che riguarda solo loro. La visione collettiva si traduce in esperienza fisica ben precisa in ogni singola donna: rispetto al dolore, e anche rispetto alle capacità che lei sente o meno di avere.

E qui cominciano molti problemi.

Credits: Holly Michelle Photography

La nostra cultura definisce tradizionalmente dolore del parto un tipo di esperienza che di fatto non era lo sforzo intenso ma sensato delle doglie naturali, ma l’atroce supplizio di un parto assistito male: le due cose si sono sovrapposte, e provare a suggerire alle donne che il dolore del parto può essere persino desiderabile è diventato un’assurdità da invasate. Quando una donna si interroga su come gestire il dolore del parto, non sempre si interroga sul vero dolore del parto. Gestire il dolore fisiologico del parto normale, non è la stessa cosa che gestire quello della sofferenza causata dall’approccio industriale e misogino al corpo prevalente nella storia dell’assistenza degli ultimi 300 anni. In molti contesti ancora oggi, l’alternativa concreta al parto con epidurale è un parto effettivamente di sofferenza atroce dove essere in grado di gestire il dolore è una sfida quasi persa in partenza: spesso è un parto alienato, con dolore orrendo e improduttivo, costellato da pena fisica nell’immobilità e sofferenza psicologica di solitudine, paura e senso di abbandono(3).

 

Accettare il dolore del parto non deve significare accettare un parto “naturale” che di naturale non ha nulla. È un fatto: in un contesto aggressivo e senza misure reali di contenimento emotivo e fisico dello sforzo, il dolore diventa sofferenza. Il travaglio in questo contesto non è più sinonimo di lavoro, con un senso e uno scopo gratificante, ma diventa lavoro forzato(4).

Se si pensa a liberare le donne dal dolore, varrebbe la pena iniziare da quello inutile.

Credits: Jennifer Mason Photography

Mentre ci pensiamo, è interessante considerare che tra il 1987 e il 2000 è cresciuto in modo significativo il numero di analgesie epidurali utilizzate in travaglio, eppure nello stesso periodo di tempo anche il numero di donne spaventate dal parto è aumentato in maniera considerevole(5). Non solo, le forme efficaci di analgesia non sono associate con una maggiore soddisfazione delle donne che hanno un parto senza complicazioni(5) e nemmeno con un benessere maggiore dal punto di vista fisico e psicologico(6). Sembra ci sia qualcosa che non quadra nella promessa dell’analgesia farmacologica: perché all’offerta più generalizzata dell’epidurale non corrisponde una minore paura generalizzata del parto? Perché le donne che desiderano e ottengono l’analgesia non sono statisticamente le più soddisfatte?

Sono domande per le quali non esistono risposte preconfezionate, ma accompagnare le donne al parto senza porle né a loro né a noi stesse è, al minimo, intellettualmente disonesto.

Dire alle donne che il parto è per tutte sempre indolore sarebbe ovviamente falso: nella maggior parte dei casi, lo sforzo c’è, causa (anche) dolore ed è reale. Ma non possiamo neanche permettere che un’altra generazione ceda di ancora all’altro grumo di frottole gigante che si stagliano nelle certezze culturali: ossia che il dolore del parto sia solo un immeritato castigo, che la normalità sia la sofferenza del parto vaginale medicalizzato, o che tutto funzioni esattamente allo stesso identico modo anche senza la percezione del dolore.

Non è la presenza o l’assenza dell’epidurale a rendere un parto migliore o peggiore, una mamma più o meno mamma (si sente anche questo!), un neonato più o meno neonato: il parto è semplicemente un fenomeno diverso che tutti i coinvolti vivono in modo diverso. L’unica cosa fondamentale è che chi sceglie sappia tra cosa sta scegliendo e, in tutti i casi, a cosa sta rinunciando. Chi sceglie di partorire senza epidurale sicuramente rinuncia a una cosa grossa: la possibilità di farsi togliere il dolore da quella cosa meravigliosa che l’umano ha inventato e che si chiama analgesia. Rinunciare a questo aiuto non è cosa da poco. Ma anche accettare quell’aiuto non è cosa da poco. Come scrive proverbialmente Verena Schmid, nella realtà del vissuto non esistono scorciatoie verso la maternità(3).

Con tutta l’enfasi che si mette sui rischi del parto, sorprende sempre notare come gli effetti collaterali e potenzialmente rischiosi connessi all’epidurale siano invece quasi sempre minimizzati. Ma la cosa veramente centrale, e quella che resta sempre da dire, non riguarda solo gli effetti fisici: è il fatto che la delega completa all’esterno richiesta dall’analgesia può rivelarsi un’arma a doppio taglio. Con l’epidurale, capita a una donna su tre di uscire dalla sala parto con la sensazione di non aver davvero partecipato al travaglio e con un senso di eccitazione e gioia inferiore a quello che si aspettavano(7). Gli aggettivi più usati da un gruppo di donne al primo figlio per descrivere se stesse durante un travaglio in anestesia sono stati: ‘spaventata’, ‘eccitata’ e ‘sopraffatta’. Nel caso di donne non più al primo figlio la descrizione migliora un pochino e sul podio al posto di ‘spaventata’ sale ‘in controllo’. L’aggettivo ‘potente’ è usato solo dal 4% delle donne al primo figlio e dal 9% delle altre(8). Nell’esperienza che si raccoglie da donne che partoriscono in modo fisiologico, il concetto di ‘potente’ torna invece in modo importante. Le donne, statisticamente, sono più soddisfatte di sé dopo un parto fisiologico che dopo un parto con analgesia farmacologica(8). Evitare il dolore, fisico o psichico, è un meccanismo delicato che può portare a perdere connessione non solo con le sensazioni dolorose ma anche con se stesse. Quando l’accento principale dell’assistenza al parto è sul dolore e come evitarlo, l’effetto paradossale è che sempre più donne devono affrontare dolori diversi dopo che il bambino è nato. Il bambino tende a essere più sonnolento, soprattutto nei primi attimi dopo la nascita, meno reattivo e meno efficiente nella suzione(9) e questa sua tendenza può creare un circolo vizioso di frustrazione o difficoltà nell’esperienza fisica e/o emotiva della mamma. Se una donna sceglie di liberarsi dal dolore in modo farmacologico, tenere presente questi aspetti anziché fingere che tutto sia uguale può aiutarla a farlo in modo saggio e informato.

Si tende ad avere l’immagine del dolore come qualcosa che si debba o togliere dalla propria strada o caricarsi addosso con rassegnazione. È raro, per la nostra cultura e mentalità, avere la curiosità di guardare al dolore come qualcosa che si possa anche solo pensare di prendere in mano e usare. Eppure, è proprio questa la via indicata da molte ricerche come valida alternativa all’analgesia farmacologica: accettare la presenza del dolore come strumento con cui lavorare, non per viverla come sottomissione. Prendere in mano il dolore e, con tutta la propria forza, usarlo come un gradino per sollevarci più in alto. C’è chi dice che questa d’altronde sia precisamente la funzione per cui Madre Natura, l’Ammasso Casuale di Atomi l’ha piazzato lì nei millenni di evoluzione…

Cercare di liberarsi dal dolore può voler dire cercare di eliminarlo. Eppure, non sono solo le ostetriche a farci notare che anche l’accettazione può essere una forma di liberazione(3): smettere di lottare contro un nemico e scoprirlo invece come un potenziale alleato ci libera da doverci difendere, mettendo così a nostra disposizione una gran quantità di energie. Accettare il dolore del parto può significare innanzitutto riconoscere il nostro corpo per come è, conoscerlo, accettarlo e supportarlo. Può anche significare sottrarsi al dominio maschile e maschilista, tecnologico e di controllo, e riscoprire la dimensione globale del corpo di donna, per cui abissi e paradossi sono pane quotidiano.

Può significare forse anche liberarsi da quella cosa che ci hanno insegnato a chiamare “liberazione dal dolore”, ma che è una liberazione un po’ ambigua, dato che richiede di rendersi dipendenti da un sacco di persone, conoscenze, tecnologie, prodotti esterni a noi. C’è poi la liberazione dall’eliminazione del dolore. L’eliminazione dello sforzo fisico può significare anche l’eliminazione del contatto diretto di una donna con le potenzialità del proprio corpo, e che quindi in quell’apparente liberazione si nasconda invece una nuova forma di sottomissione e indebolimento.

Liberarsi dalla sofferenza in modo fisiologico significa accettare la fatica come strumento da usare attraverso il travaglio. Si basa sul principio che lo sforzo doloroso sia sì un aspetto della fisiologia del parto normale, ma non l’unico e non quello centrale. E che sia un aspetto che dovrebbe suscitare più attenzione e meno paura(6), che andrebbe assistito con il rispetto di supportarne l’efficacia e la sostenibilità per la donna.

Tra le donne che scelgono il percorso fisiologico e le ostetriche che sanno assisterlo si crea una dinamica lontana dal gesto dall’alto che dice di salvare e si sostituisce: si innesca una relazione che è tocco e che, stando a fianco e non sopra, accompagna, protegge ma al contempo lascia crescere. Lì, in quella relazione dinamica di assistenza salutogenica, c’è una forma profonda di emancipazione da forme di dolore ben più subdole e taglienti di quella prevista per la nascita dei piccoli umani. Liberazione della donna che partorisce. Dell’ostetrica che la assiste. E della società intera.

 

Il testo di questo articolo è liberamente riadattato dal volume “Il Parto Positivo. Diventare mamma con scienza e con amore” di S. Dalvit e C. Antolini, Mondadori 2021 cap. 9.3  e 9.4

Questo articolo è comparso per la prima volta sul numero 119 “Maternità ed Empowerment” di DeD, ultimo numero di chiusura della storica la rivista per donne e ostetriche diretta da Verena Schmid. Per abbonamenti o numeri arretrati visita il sito di Seao Edizioni.

  • Laura Y. Whitburn et al., «The Meaning of Labour Pain: How the Social Environment and Other Contextual Factors Shape Women’s Experiences», BMC Pregnancy and Childbirth 17, n. 1 (dicembre 2017): 157, https://doi.org/10.1186/s12884-017-1343-3.
  • ibid
  • Schmid V., Voglia di Parto metodi e tecniche per gestire le doglie e ridurre il dolore, AAM Terra Nuova, 2019
  • Rich A., Of Woman Born: Motherhood as Experience and Institution, Norton, 1995.
  • Josephine Green, S. C. Easton, e Helen Baston, «Greater Expectations? A comparison of women’s expectations and experiences of maternity carechoices in 1987 and 2000.», Journal of Reproductive and Infant Psychology, n. 18 (2000).
  • Leap N., Dodwell M., e Newburn M., «Working with pain in labour: an overview of evidence.», Perspective, the NCT pubb. for parent centred midwifery, 2010.
  • https://www.aims.org.uk/journal/item/epidurals-dead-from-the-waist-down
  • Green, Easton, e Baston, «Greater Expectations? A comparison of women’s expectations and experiences of maternity carechoices in 1987 and 2000.»
  • https://www.aims.org.uk/journal/item/epidurals-dead-from-the-waist-down

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