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Ostetriche e sistema: un rapporto ancora da risolvere. Fuori dal sistema: fuga o emancipazione?

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Il rapporto tra le Ostetriche e il “Sistema” è un rapporto delicato, più o meno da quando è nato il “Sistema”.

Definiamo innanzitutto cos’è “Sistema”: in ambito scientifico si intende qualsiasi oggetto di studio che, pur essendo costituito da diversi elementi reciprocamente interconnessi e interagenti tra loro e con l’ambiente esterno, reagisce o evolve come un tutto, con proprie leggi generali.

Qui con “Sistema” intendiamo il complesso di persone, luoghi e strumenti di assistenza al parto che la sanità pubblica regolamenta e offre per l’assistenza di gravidanze, parti e maternità.

Nel 1760 una giovane levatrice inglese di nome Elisabeth Nihell scrive un pamphlet appassionato, e forse disperato, contro la pratica che si diffondeva allora di affidare il parto a strumenti più o meno tecnologici (siamo negli anni in cui entra in commercio il forcipe) nelle mani di medici (1). Questi uomini imparavano l’arte ostetrica non osservando donne vere, ma su manichini di legno con borse di cuoio piene di liquido -spesso birra- a simulare l’utero, con una statua di cera come bambino e offrivano un’assistenza che lei descrive come “superficiale e senza affetto, frutto dell’interesse di acquisire un’arte”. Elisabeth Nihell accusava i medici dell’epoca di usare il forcipe per forzare un travaglio prematuro o accorciare i normali tempi del parto per ragioni sperimentali, sulla base di quello che lei definisce il “fantasma inventato dell’incapacità delle donne”. Trasmette tutta la frustrazione di non poter passare ai nuovi esperti almeno la testimonianza di quelle “mille piccole tenere attenzioni suggerite dalla natura e perfezionate con l’esperienza per alleviare il dolore”, che infatti all’interno del “Sistema” sono andate quasi perdute per molto tempo.

Dal 1700 in poi sono state molte le voci di donna ad argomentare che la storia dell’assistenza al parto possa essere vista come un graduale tentativo da parte degli uomini di sradicare la nascita dalle donne e considerarla una cosa loro (2). È almeno possibile che in sala parto si sia giocata, nel corso dei secoli, una partita ad armi impari tra donne e patriarcato: un tiro alla fune che aveva in palio il prendersi il merito di aver fatto una cosa tanto grande come portare una nuova vita nel mondo. Questo mettere da parte le donne ha riguardato certamente tanto quelle che partorivano quanto quelle che le assistevano: con il risultato di portare intere generazioni a dimenticare tanto il potere del corpo delle mamme quanto la sapienza delle mani e del sapere delle levatrici. Nel modello medico/maschile che si è imposto da allora, ostetrica e partoriente hanno condiviso uno stesso destino: entrambe si sono trovate posizionate in basso nella scala gerarchica, da entrambe ci si aspettava adattamento e obbedienza passiva alle regole istituzionali stabilite da chi sapeva e comandava (3). L’esempio più tipico: la posizione supina per partorire. Un parto a gambe alzate sopra un lettino è senz’altro molto comodo, infatti. Per l’esperto che si siede sullo sgabello a guardare invece che doversi mettere a quattro zampe, in posizione poco consona al numero di ore passate a studiare sui libri e al prestigio sociale che questo ha comportato per secoli. E la posizione ginecologica per il parto quando viene introdotta? Guarda caso, nel 1700, insieme al forcipe.

L’immagine di una donna nuda, con le gambe aperte alzate su un lettino, a disposizione dello sguardo e delle mani di un uomo che sa più di lei e decide per lei, è l’immagine per definizione della sottomissione femminile: sessuale, mentale e sociale.(4)

Il 1700 non è poi così lontano. Molte delle pratiche, e soprattutto la visione della donna che le supportava, considerate normali allora sono rimaste fino al 1900.

Negli anni successivi non sono scomparse, si sono solo tradotte in una loro versione più tecnologicamente avanzata. Non è certo solo una questione di maschi e di femmine: è una questione di pregiudizi che si danno per scontati. E quei pregiudizi si sviluppano intorno ai giudizi che vengono articolati. E si infilano nelle pratiche e nelle abitudini. Diventano la normalità.

E oggi? Oggi l’Italia presenta una situazione paradossale, in cui a una percezione diffusa di “sicurezza” non sempre corrisponde un’esperienza altrettanto diffusa di “positività” dell’esperienza della nascita. Con l’imprinting del 1700 abbiamo ricevuto in eredità un “Sistema” ufficiale di sanità pubblica che -salvo rare illuminate eccezioni in alcune regioni- offre assistenza al parto solo ospedaliero. Un sistema di assistenza medica che certo rappresenta un grande privilegio e un’inestimabile conquista nella storia dell’umanità. Ma che, come ogni cosa umana, può essere sempre migliorato.

Ho raccolto le testimonianze informali di un gruppo variegato di Ostetriche che abitano o hanno abitato il sistema, alcune da pochi anni altre da più di 40: professioniste che stanno nel sistema, con occhio attento a quello che c’è fuori. A volte sognando di uscirne ma è una scelta molto connotata economicamente e non sempre libera.  Alcune dal sistema sono uscite. Altre non ci sono mai entrate “se non per la paradossale esperienza della formazione: perché la formazione è sempre nel sistema”. Cosa emerge?

Polarizzare non è mai una buona idea. E certo sappiamo bene che nel nostro paese ci sono picchi di qualità suprema. Resta il fatto che queste sono le voci, che riporto come una fedele cronista, di un gruppo di Ostetriche nel giugno 2022 in Italia.

Con quali parole scelgono di descrivere l’esperienza lavorativa in ospedale? “Cronometri, protocolli, caos, tempo sprecato per la troppa burocrazia, gestione schematica, medicalizzata della nascita e della genitorialità, frustrazione, malpractice, burnout, standardizzazione, compromesso fra professionisti, un continuo lottare, sostegno alle donne, scoperta di potenzialità.” In una scala da 1 a 10, dove 1 è “per nulla” e 10 “moltissimo” quanto ritengono salutogenica la cultura dell’ospedale in cui lavorano le ostetriche con cui ho parlato? In maggioranza si collocano tra il 3 e il 6. Un’esigua minoranza riporta 8.

Esempi particolarmente negativi delle culture ospedaliere riportati da queste professioniste riecheggiano in queste voci che cito testualmente: “Violenza ostetrica da parte di ginecologi o ostetriche” “Una cultura molto incentrata su riconoscimenti ‘formali’ e obiettivi da raggiungere ma poco sull’effettiva qualità dell’esperienza di parto percepita dalle donne/coppie. Il tentativo di rispettare la fisiologia nell’assistenza è rimasto più un obiettivo formale che reale perché gli operatori fanno difficoltà.” “C’è molta paura rispetto ai contenziosi medico legali e si sta perdendo la Fiducia nelle capacità e risorse della donna/bambino/coppia…” “C’è frustrazione negli operatori che si ripercuote sull’assistenza e gli anni della pandemia hanno peggiorato le cose. C’è molta burocrazia da gestire che toglie tempo ed energia al vedere davvero ogni donna/coppia / bambino per quello che è…si finisce per ‘standardizzare’ e ingabbiare ogni situazione in schemi rigidi.” “Tentativi ripetuti di interferenza e da parte della componente medica.” “Mento spesso sulla dilatazione, la porto avanti (riconoscendo le situazioni al limite con eventuali alterazioni dell’andamento fisiologico) per gestire l’ansia del medico di turno con l’orologio alla mano. Mi sento colpevole e parte di questo sistema che si muove sempre sulla difensiva.” “Il cambio di rotta con ogni primario nuovo…. L’inserimento di personale medico e ostetrico proveniente da altre realtà senza il minimo appoggio per una crescita consapevolmente orientata ad accogliere a sostenere ad accompagnare…. Il cambio di impostazione del reparto divenuto prevalentemente ginecologico oncologico.” “L’ostruzionismo di menti chiuse nelle mura mentali del ‘si è sempre fatto così’.”

“Episiotomia, induzioni immotivate, amnioressi, kristeller e troppi traumi perineali e psicologici delle donne e dei bambini.” “Mancato rispetto per i tempi di attesa fisiologici.” “Ricordo molti episodi negativi in cui le donne non solo non sono state ascoltate ma spesso hanno subito abusi. Come ostetrica ho cercato di essere di aiuto e di portare buone pratiche in ospedale ma spesso ho subito boicottaggi.” “Spesso mi sono ritrovata a dover essere complice di situazioni che non mi piacevano per una questione di gerarchia.”

Ho poi chiesto esempi di esperienze particolarmente positive e questo sono le risposte: “Nessuna.” “Negli anni l’azienda ha cercato in qualche modo di migliorare l’assistenza in un’ottica di preservare la fisiologia nel travaglio/ parto… purtroppo spesso ‘sulla carta’.” “Gestione rapida delle urgenze.” “Creazione di un percorso di fisiologia in gravidanza travaglio parto e puerperio di competenza ostetrica e non medica.” “Le pause concesse ad una donna indotta. La possibilità di essere dimessa e tornare un giorno a casa. ( non ero in Italia) Il parto con pochi, gli indispensabili (non ero in Italia). Le paure accolte e non demonizzate.” “L’inizio dell’assistenza alle nascite in acqua fra medici titubanti e un vecchio primario tanto tradizionalista quanto “fisiologenico”…che comunque lo ha permesso…tenendosi ai margini….ad osservare le ostetriche crescere…e le donne manifestare la loro potenza.” “La prima volta che sono stata in sala parto con un medico che non aveva mai assistito un parto fisiologico: gli è preso un colpo!” “La attuale volontà di voltare pagina ed incamminarsi verso un rispetto della gravidanza e della nascita perseguendo il rispetto dei diritto dell’essere umano alla salute e di quelle che sono le raccomandazioni internazionali, ponendo questo nelle mani delle ostetriche.”

A volte nel molto positivo riverbera il molto negativo: “Anni fa abbiamo iniziato a proiettare ai corsi preparto un video dove si vedevano tutte le caratteristiche positive della nostra maternità, tra cui vasca e immagini di partorienti accovacciate. È cambiata l’aspettativa delle donne, è cambiata la domanda ed è migliorata ulteriormente l’offerta. Poi ci sono stati spostamenti di personale, sono cambiate le persone…qualcuno ha tolto il video, si è passati a slides che mostravano di nuovo la posizione semiseduta…la domanda è tornata indietro: ritornava il vecchio modello. Siamo noi ostetriche a volte a fare in modo che le donne non chiedano.” Al contempo “le donne culturalmente in media sono ancora immerse in aspettative molto basse.”

Qualcuna di queste Ostetriche, dopo anni in ospedale oggi è “fuori dal Sistema” e lavora come Ostetrica indipendente. Alla domanda “Cosa ha motivato la tua scelta di lasciare l’azienda ospedaliera?” ho ricevuto queste risposte: “Assenza continuità assistenziale, maschilismo medico , come venivano trattate le donne.” “La troppa medicina difensiva dei medici tende, inevitabilmente, a spostare l’attenzione dal rispetto della donna, del suo travaglio, del suo parto e del suo bambino al giudice che li processerà. Per chi crede ancora nella fisiologia della nascita è alienante. Non ho resistito. Sono andata via.” “Ancora devo lasciarla ma rientra nei miei progetti prossimi: è molto difficile poter garantire una giusta assistenza ostetrica che garantisca il rispetto di ogni diritto della persona, dell’ostetrica compresi.” “Fin dall’inizio ho fatto la scelta di non lavorare in una struttura ospedaliera, troppo lontana dalle motivazioni che mi avevano portato a fare la scelta di diventare ostetrica.” “Che poi alcune di noi Indipendenti in realtà sono ancora allineate al Sistema.”

Un tema su cui la polarizzazione Sistema/Indipendenza si scalda è quello della continuità dell’assistenza. Sono tante le Ostetriche che all’impossibilità di conoscere davvero le donne che assistono imputano il bisogno forte di abbandonare l’istituzione. “Perché il sistema ospedaliero aziendale non ha come obiettivo il bisogno di chi vi accede. Anche se tante ostetriche sono meravigliosamente competenti ed empatiche Anche se tanti ospedali sono accoglienti e hanno le liane e i lettoni massaggianti.” “Dovrebbe essere un diritto la continuità assistenziale tra ostetrica e donna. Il senso di frustrazione di non poter sostenere la fisiologia è terribile.” Allo stesso tempo c’è chi, con esperienza accumulata in svariati decenni, ricorda che la continuità dell’assistenza sarebbe preziosa, certo, ma “non per farti sentire che sei brava e darti gratificazione personale come spesso accade comprensibilmente se una donna ti ringrazia…la relazione è un valore anche fuori dalla sala parto, anche tra colleghe!”.

Che sia dal dolore (per le partorienti) o dalle rigidità del “Sistema” per chi le assiste, la libertà sembra a molte l’obiettivo principale da raggiungere. E se invece fosse l’autonomia il vero valore che ancora ci sfugge? L’autonomia delle donne, intese come centrate in se stesse, capaci di prendere decisioni in relazione a se stesse e al proprio corpo, non in relazione all’autorità dell’altro (marito, capo, medico), continua a essere violata oggi in sala parto -come altrove- in modo a volte sottile a volte esplicito, sia nel discorso che nella pratica (5). “È avvilente, ti fa sentire come in gabbia, una pedina mossa a proprio interesse che spesso o quasi sempre va contro quello che è interesse della salute della donna e della diade… 

Ti senti incatenata, con le mani legate, oppure se decidi di perseguire il tutto e per tutto, ti senti una guerriera sempre in guerra a difesa di ciò per cui ti batti.” Cambiare le cose da dentro, si può? “In tante cercano da dentro di cambiare le cose. A volte la spinta al cambiamento è accolta…poi cambia il coordinatore e quello ti taglia le gambe… La verità che nessuno pronuncia ad alta voce è che tanti professionisti fanno questo lavoro come status.” Un’altra storia di un mettersi al servizio/curare che non è reale, ma un modo di acquistare e esercitare potere.

La voce di Elizabeth Nihell dall’ombra del 1700 risuona come un’eco in quella di questa Ostetrica di oggi: “Le decisioni vengono affidate a persone con una grande lista di titoli e master che non sempre è direttamente proporzionale all’esperienza agita. Titoli e master, ma la totale incapacità di capire la portata umana delle proprie decisioni.”

“L’italia viaggia a velocità davvero diverse: il sud è indietro anni luce e ovunque le donne accettano di tutto senza rendersene conto. L’impostazione del dibattito è sbagliata: sia tra i media che nel sistema: il punto messo a tema è un errore tecnico specifico, quando quasi mai è un errore uno solo tecnico specifico che ha causato chissà quale disgrazia, è il sistema che non permette di esprimersi, con un’omertà disarmante.”

Nel “Sistema” prevalente oggi una cosa salta agli occhi: la donna che sceglie di partorire a casa o in casa maternità -e l’Ostetrica che si offre di assisterla- quasi ovunque è una donna che “esce dal Sistema”. “A volte mi capita di fare degli accompagni, ci sono coppie per le quali la possibilità massima di trasgredire il sistema è fare il più possibile il travaglio a casa prima di andare in ospedale. Spesso vivo interamente sulla mia pelle le tensioni, le incongruenze degli approcci proposti alla coppia…. ma posso stare solo accanto.”

Ma allora forse il Sistema è troppo piccolo? Se non prevede la totalità delle scelte di luogo del parto che persino l’OMS arriva a descrivere come un diritto di scelta che è diritto umano. E donne e professioniste che scelgono di uscirne rappresentano un messaggio differente: non sono fuori dal Sistema, è chi traccia il confine del Sistema che non ne ha seguito la traiettoria. Abbiamo fatto uno sforzo supremo per congestionare tutta la salute dentro il perimetro ristretto della patologia: è il momento di invertire la proporzione. “Fuori dal sistema non ci sono condizioni dialoganti con il sistema.” Cosa serve? “Una maggiore alleanza tra Ostetriche e donne: riconoscere che combattiamo le stesse battaglie e farle coincidere.”

Credits: The Feminist Sage Femme

Da una parte ci sarà forse il Sistema. Dall’altra parte ci sono di sicuro le persone vere (tutte: medici, ostetriche, personale e partorienti) che quel sistema lo abitano, lo fanno vivere, a volte lo subiscono, non sempre lo riconoscono, contribuiscono in ogni caso a crearlo. “Il problema è il Sistema al cui interno ci sono anche ottimi operatori ma per come è strutturato in Italia non vengono gratificati abbastanza mentre chi lavora male non subisce di solito conseguenze perlomeno nel pubblico.” “Ci sono luoghi in cui si lavora male, anche se i singoli lavorerebbero volentieri bene.”

L’emancipazione chiama responsabilità individuale. “Io parlo con tante persone: sono certa non ci sia intenzionalità nel vero senso della parola. Non c’è consapevolezza! Come se ci fosse una distanza tra il livello intellettuale teorico e la percezione empatica. Forse frutto di approccio troppo intellettuale alle cose senza abbastanza lavoro su di sé, che passi anche dal corpo?”

Questo articolo è comparso per la prima volta sul numero 119 “Maternità ed Empowerment” di DeD, ultimo numero di chiusura della storica la rivista per donne e ostetriche diretta da Verena Schmid. Per abbonamenti o numeri arretrati visita il sito di Seao Edizioni.

  • ELIZABETH NIHELL, TREATISE ON THE ART OF MIDWIFERY. (Place of publication not identified: ECHO LIBRARY, 2019) cit. in Dalvit S., Antolini C. Il Parto Positivo. Diventare mamma con scienza e con amore. Mondadori 2021
  • Milli Hill, Give Birth Like a Feminist. Your Body. Your Baby. Your Choices. Harper Collins, 2020
  • Dalvit S., Antolini C. Il Parto Positivo. Diventare mamma con scienza e con amore. Mondadori 2021
  • Adrienne C. Rich, Of Woman Born: Motherhood as Experience and Institution, Reissued ed, Women’s Studies (New York: Norton, 1995
  • A. Cahill, «Male Appropriation and Medicalization of Childbirth: An Historical Analysis», Journal of Advanced Nursing 33, n. 3 (febbraio 2001): 334–42, https://doi.org/10.1046/j.1365-2648.2001.01669.x.

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