Questa è la Baby Loss Awareness Week.
IPP la dedica alle tante amiche che portano nel cuore una vita che le ha solo sfiorate.
Ci capita di ricevere messaggi molto dolce malinconici: vengono da mamme a cui abbiamo fatto compagnia per un pezzo di strada, ma che non dovranno più partorire. Mamme di bambini piccolissimi, che le hanno solo sfiorate prima di sparire di nuovo. La domanda, formulata in modo diverso, è sempre una: quale appiglio positivo in quel vuoto improvviso?
Capita, e capita spesso. Perdere un bambino prima della 12 settimana sembra succeda a una donna su 4, ma non si può dire con certezza: l’aborto spontaneo non raggiunge mai la neocorteccia (parte consapevole del cervello) di alcune donne e passa quindi irrecensito. Nella vita di altre è invece un fatto prudentemente nascosto e dimenticato (qualcuno direbbe soppresso) al più presto. Questo non solo rende difficile la vita degli esperti di statistica, ma anche quella dei milioni di donne che si ritrovano a vivere un’esperienza così intensa isolate e senza reale supporto.
Un femminismo un po’ miope ci ha guadagnato con più efficacia il diritto (che qui non è messo in discussione) all’aborto entro i 3 mesi, ma si è curato poco del diritto di onorare l’aborto spontaneo che avviene nello stesso periodo. Anzi, alle tante donne a cui capita resta spesso da far fronte quasi a un implicito divieto di dispiacersi troppo. “Pensa al futuro: arriverà un altro bambino. Almeno sai che puoi restare incinta.” Quasi nessuno a cui non sia capitato sa veramente quanto cruenta, cruda e francamente a volte anche macabra possa essere l’esperienza.
La solidarietà malinconica e silenziosa che unisce in modo invisibile le tante donne a cui è capitato risuona poco.
Eppure, già a poche settimane (anzi, a pochi giorni), l’interruzione spontanea di una gravidanza è il dolore di una relazione recisa. Certo, probabilmente “arriverà un altro bambino”, ma quello che c’era se n’è andato. Per poter realmente voltare pagina, per poter realmente trarre anche del bene dall’esperienza dolorosa della perdita, è necessario riconoscerla e portarne il lutto.
A chi quel dolore lo ha provato, a chi le sta accanto, un appiglio positivo si può offrire, perché un appiglio positivo, delicato e sfuggente ma reale, c’è. Perché una cosa non ci sia più, è necessario che una cosa sia stata. Una vita c’è stata.
Quello che Michel Odent ha insegnato a chiamare il Periodo Primario per lo sviluppo umano, inizia nel periodo precedente al concepimento e attraversa tutto il primo anno di vita post-parto.
Piccola, minuscola e breve: ma una cosa viva è stata dentro di te. Una cosa minuscola, che non era ancora una persona indipendente ma era già qualcuno. Qualcuno che ha condiviso il tuo respiro e i tuoi umori, ha percepito anche “solo” a livello molecolare la tua presenza e i tuoi sentimenti per lui. Qualcuno che è venuto nella tua vita e ti ha portato qualcosa: consapevolezza? Speranza? Attenzione? Qual’è stato il regalo di questa vita che ti ha sfiorata? Questo è un tema sul quale vale la pena indugiare affinché, un giorno, la piccola luce nascosta della gratitudine possa emergere e portare un vero sollievo.
Ed è su questa relazione con la vita che c’è stata, che chi affronta il dolore di un aborto spontaneo può scegliere di focalizzare l’attenzione. La Psicologia Perinatale, le Neuroscienze (se l’istinto di mamma non ci basta) ci dicono cose incredibili su quei primi giorni di gravidanza. Sulla relazione viva e reale che abbiamo avuto con il nostro bambino.
Questa relazione viva si può piangere e si deve onorare. E il dolore della perdita, inevitabile, può imparare a convivere con l’orgoglio e l’onore per un pezzo di strada condiviso. Non solo emotivamente, ma anche davvero fisicamente. Si è interrotta, ma era: una relazione e comunicazione. Con un organismo cellulare piccolissimo, certo; in modi e in tempi specifici, certo; però nel suo buio minuscolo un organismo vivo è stato in relazione e in comunicazione. E molto di più. Ha condiviso ogni risata e ogni malumore: a livello chimico e non verbale, ma lo ha condiviso.
Prima di avere un cervello, o persino un corpo, non siamo stati altro che una cellula. Prima uovo e sperma che si sono fusi insieme a formare una singola cellula, e poi una collezione di cellule che si sono separate ancora e ancora. L’esperienza biochimica di quelle prime cellule forma il precursore della memoria – non la memoria come la intendiamo nella vita ai giorni nostri – ma un’antica memoria cellulare di un tempo in cui, come una crisalide, avevamo una forma differente. (T. R. Verny)
Per chi, come noi, trova gli argomenti spirituali faccenda troppo privata per diventare argomento pro o contro qualsiasi cosa; per chi si sforza di contenere il dolore della perdita cercando anzi di sminuirlo perché “in fondo era solo l’inizio”, può essere utile sapere che quel piccolo organismo di poche cellule era davvero già in relazione con noi. A livello spirituale chi può dirlo (e giustamente non a tutti importa); a livello fisico però è sicuro. L’impatto delle esperienze della mamma sul suo bambino iniziano subito, con la sua prima cellula. L’organismo umano immagazzina biochimicamente ogni esperienza fin dall’inizio della vita (A. D. Weinstein).
Quando hai riso in quelle giornate, hai condiviso un messaggio chimico di gioia. Quando hai pianto, qualcun’altro ha ricevuto l’impronta di una tristezza. Non eri proprio del tutto da sola. E non lo sei nemmeno ora. Quella relazione ormai fa parte di te. Per sempre.
Noi scegliamo di onorare quella vita e quella relazione. Si può scegliere di portarla con sé come una carezza breve, che è stata.
È l’unico modo, noi crediamo, per onorare la Vita, una vita che c’era e una vita che resta: la tua.